Si
chiamavano dattilografe.
Anzi,
stenodattilografe, perché oltre a saper battere a macchina sapevano anche stenografare.
Erano gli angeli dei
ministeri, degli uffici, delle copisterie, lavoratrici indispensabili per
tradurre in dattiloscritti le pagine scritte a mano.
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Negli
uffici qualsiasi impiegato, di gruppo A o di gruppo B, aveva una apposita
cestina sul suo tavolo, con la scritta: “Copia”.
Lui
scriveva a mano, più o meno ordinatamente, e poi metteva i suoi foglietti nella
cestina.
Loro, gli angeli del
tasto, svuotavano la cestina, si portavano via i fogli, e dopo un po’
riportavano i loro compitini fatti, con i fogli dattiloscritti in doppia copia,
farciti della carta carbone.
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Bè,
a dire il vero non andava sempre così, perché c’erano le dattilografe modello
ma anche quelle pigre, e magari toccava agli impiegati portare i loro foglietti
alle fanciulle e pregarle con sorrisi melliflui di provvedere alla battitura.
Le dattilografe spesso
avevano un gran faldone di foglietti da copiare, e si seccavano, oppure
privilegiavano gli scritti degli impiegati simpatici e lasciavano in fondo
quelli degli altri.
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Insomma,
avevano un piccolo potere: una pratica in attesa di battitura poteva stagionare
per settimane in un cassetto, e il povero impiegato rischiava di essere
redarguito dal capoufficio…
Il
capoufficio in questione non aveva di questi problemi: lui dettava.
C’erano
delle segretarie solerti che avevano un particolare piacere nell’andare “sotto
battitura”.
Appena il capo le
chiamava, loro si armavano di taccuino e penna e correvano nella stanza del
boss con particolare sussiego.
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Poi,
mentre lui camminava su e giù per la stanza dettando con aria ispirata, le
segretarie scrivevano o talvolta stenografavano, con le gambe accavallate e il
taccuino sulle ginocchia.
Lui
si sentiva molto creativo, e in quel momento il suo lavoro gli appariva davvero
importante.
Quando
aveva finito, si fermava un attimo, quasi svegliandosi da un sogno, e guardava
la segretaria con distacco, dicendole: “Vada”.
Lei usciva tutta
agitata, timorosa di non aver capito tutto ciò che il capo aveva dettato, e si
precipitava al suo tavolo, pronta a trascrivere le sue parole senza degnare di
uno sguardo il faldone strapieno dei foglietti degli altri impiegati.
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La
macchina da scrivere era la forza delle dattilografe, ma anche la debolezza,
perché segnava il loro destino di subalterne.
Gli
impiegati, anche i più modesti, non si avvicinavano nemmeno a quelle macchine,
simbolo di uno status considerato inferiore al proprio.
Spesso erano tentati,
per velocizzare una pratica, di avvicinarsi alla macchina da scrivere e battersi
da soli il loro foglietto: magari erano bravissimi a usarla, e a casa loro le
dita volavano sulla Olivetti Lettera 22 che possedevano.
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Ma in ufficio no, non si doveva far sapere che erano perfettamente in
grado di dattiloscriversi le loro pratiche:
noblesse oblige…
noblesse oblige…